Fiorenzo Zaffina è essenzialmente uno scultore, ma di quegli scultori che conoscono la pittura e amano il video. E’ uno scultore che delinea gli orizzonti del suo, e del nostro, immaginario utilizzando di volta in volta i materiali più apparentemente diversi − cemento esattamente livellato e intonacato di bianco accecante, pietra viva, mattone, poliuretano espanso, gomma, metallo laccato e reso così “artificiale” − i quali tuttavia, di opera in opera, si prestano a dar forma a immagini che sono anche pittoriche (e non solo perché trattate con il colore, olio o acrilico che sia) di grande eleganza formale quanto di inquietante e vocazione simbolica. I suoi sono intagli, interventi chirurgici, ferite provocate e indagate, tarsìe apparentemente frastagliate incastonate non sulla ma oltre la superficie stessa dell’esistenza, in e oltre il “muro” che di opera in opera l’artista ha scelto per evocarla. Che in queste “ferite” lasciate aperte sui muri − la cui metaforicità è sottolineata dall’uso antinaturalistico del colore fatta propria dall’artista lungo una linea che discende dal cinema d’avanguardia e da quello di Antonioni a esempio, se non proprio dai pionieri della videoarte − rimangano impigliate (e si vedano o, il più delle volte, solo intravvedano) frammenti materiali o semplici evocazioni della nostra epoca tecnologica (microchip, circuiti stampati, schede video, a volte monitor accesi o pc ormai inutilizzabili…) non fa che accrescere il piacere dell’interpretazione. Un piacere soggettivo a suo modo “interattivo” che chiede radicalità di sguardo e sintonia “affettiva” con opere che non nascondono l’essere “perturbanti”.
L’eleganza formale e compositiva del tratto e delle forme che contraddistinguono sempre l’opera di Zaffina, infatti, si contrappone decisamente alla simbologia apocalittica della sua ispirazione: quasi che il tempo apparentemente pacificato (o accucciato in stratificazioni temporali successive ormai (solo) apparentemente innocue) delle sue superfici maniacalmente lisce e bianche o di quelle dei muri e delle pietre antiche sulle quali interviene, debba essere disvelato nella sua primordialità da alcuni suoi contrari: la matericità, la granulosità, la ruvidezza ma anche e forse anzitutto i colori; intensi sì, ma quelli della luce che si spegne nelle profondità del mare (il verde) o del sole che tramonta (l’arancio). Il piacere per le forme ben delineate lascia il posto a segni che sono tagli: e che sintetizzano allegorie; stati di non pacificazione , forme botaniche o animali non identificabili e in ogni caso inquietanti, disegni forti dell’essenza arcaica − e presumibilmente violenta − della nostra società post-tecnologica: ancora in bilico, nonostante tutto, tra antinomie fondanti quali locale e globale, tecnologico o ecologico, soggettivo o omologato, liscio o ruvido, “naturale”/ “innaturale”. Ancora indecisi, insomma, tra catastrofe e rinascita (sapendo bene che si tratta della stessa cosa), ci vediamo interrogare da Zaffina: cosa c’è sotto la pelle dell’esistenza? Cosa c’è dietro l’apparenza di un muro? Cosa c’è di là dall’apparenza di una superficie materica senza asperità alcuna e del tutto priva di colore? Un’esplosione, probabilmente. Un’esplosione di colore e di asperità, un mosaico di spigoli taglienti, sfondamenti, aperture, lacerazioni, passioni.
Questo scavare tra i segreti nascosti dei muri (a volte producendoli artificialmente, per dar ancora più corpo a una azione che in Zaffina è sempre performativa e fortemente volitiva come il suo tratto di pittore/scultore) è, in fondo, una ricerca di storie perdute, un portare alla luce del giorno ciò che si era dimenticato, uno “scavare dentro” (anche nell’anima delle cose, alla ricerca de un’anima possibile) tra la pietra viva, gli intonaci, i gessi, i poliuretani (plastici e tattili al tempo stesso) del passato e i chip del futuro. Opere che mettono “in scena” dialettiche tra opposti ma anche paesaggi, spesso interiori: e soggettivi, tutti e solo dello spettatore chiamato a interagire con essi. Opere pensate − sempre − non come oggetti ma come installazioni: interventi di volta in volta originali realizzati in situ, nell’aria specifica dei luoghi e delle memorie che li attraversano. Siti che si lasciano − con leggerezza − indovinare, e a volte effettivamente videografare, come set. Paesaggi di anime lacerate, insomma, nell’epoca delle tecnologie dispiegate e dei dubbi su di esse.
E Oltre passo, vado avanti, un passo avanti ancora, in quest’opera pensata per la Wunderkammern, per la “camera dei sogni” di Spello. La cornice è una finestra − forse la stessa finestra della prima “camera obscura” dalla quale Niépce trasse su lastra la sua prima “eliografia”, l’inizio della storia delle nuove immagini tecnologicamente mediate − tra i montanti della quale si incastona un “muro” − assolutamente e dichiaratamente artificiale − di poliuretano espanso. Levigatissimo, come al solito, ma colorato non più bianco bensì di un arancio che vira al bordeaux al rosso intenso. E’ una prima novità, un passo “oltre”. Ma se i colori si incupiscono, i tagli − gli intagli − rimangono quelli di sempre : incisioni nette, senza sbavature, precise. Ma la loro forma non è più irregolare: sono divenute armoniche, plastiche, rotonde, sono scomparsi gli spigoli vivi. E’ la seconda novità. La terza, infine è quella decisiva: la forma che si intravvede (dall’esterno della camera verso l’interno, anzitutto, e dal basso verso l’alto ovviamente: rovesciando tutte le convenzioni abituali sul punto di vista dello spettatore) non è più un’esplosione, un fiore colorato, una meteora, una cometa, una ferita ma una forma vagamente antropomorfa. Femminile, addirittura. Una danzatrice, angelica: che ci accompagna che ci potrebbe accompagnare oltre i nostro passo, oltre la finestra, oltre la camera oscura, oltre i sogni e le memorie della Wunderkammern verso un oltre che solo ciascuno di noi conosce, solo che (come ci ricordò Pirandello pensando a un “cinema” che ancora non c’era) noi lo possiamo e lo vogliamo vedere.
Accettiamone la provocazione la sciamo che questa consapevolezza, accompagnata dolcemente dall’arancione e dal rosso del sole al tramonto, sedimenti in noi e vediamo l’effetto che fa. E’ questa la sintonia che, oggi, l’artista ci chiede di attivare.
Marco Maria Gazzano